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Recensione | Addio fantasmi di Nadia Terranova: come raccontare la crisi della presenza

Aggiornamento: 14 dic 2019


Se volessimo trovare una chiave di lettura per il nuovo romanzo di Nadia Terranova, dovremmo tornare a un saggio pubblicato da Ernesto De Martino nell'ormai lontano 1958: Morte e pianto rituale1. E, in particolare, dovremmo rifarci a quanto scrive proprio nel primo capitolo, intitolato Crisi della presenza e crisi del cordoglio: «La crisi del cordoglio è una malattia ed il cordoglio è il lavoro speso per tentare la guarigione», (p. 15). Addio fantasmi (Einaudi, 2018) è infatti la storia di un cordoglio mancato: Sebastiano Laquidara è scomparso quando Ida, la protagonista alla cui voce il lettore si affida per tutta la narrazione, aveva tredici anni. Ma il romanzo è anche la storia di un cordoglio sopravvissuto: la casa a Messina che Ida ha lasciato quando aveva vent'anni per trasferirsi a Roma e a cui deve tornare su invito della madre, che ha deciso di venderla, in modo che la figlia possa decidere quali oggetti personali salvare, sembra impregnata della presenza paterna... o della sua assenza.


Sì, perché l'ipotesi più probabile che vagheggia la mente di Ida è che il padre abbia deciso di togliersi la vita in mare. E sebbene non abbia alcun modo di dimostrarlo, il fatto che la casa, a partire dal tetto, sia danneggiata da alcune perdite d'acqua, le sembra la prova migliore che quella ipotesi sia invece una certezza2. Ma che cosa c'entra Ernesto De Martino con questa storia? Scrive Alice De Santis su La Balena Bianca:

«Esistono diversi tipi di dolore: quello pubblico e istituzionalizzato, dei lutti nazionali, delle manifestazioni in piazza e dei funerali di Stato e poi un dolore più intimo e personale, consumato in privato, quotidianamente. Nel primo caso la sofferenza ha un’identità definita, un nome preciso e spesso discorsi di cordoglio ad accompagnarla; nel secondo il più delle volte non ci sono parole, ma silenzi attorno ai quali dover costruire un’intera esistenza. Di questo dolore muto – e del tentativo di dargli voce – ci parla Nadia Terranova nel suo ultimo romanzo Addio fantasmi».

Il problema è proprio questo: la mancanza di un rito, che ci rimanda direttamente al concetto di «perdita della presenza». La morte di una persona cara, infatti, ci mette davanti a «il rischio di non poter oltrepassare tale situazione, di restare fissati e polarizzati in essa, senza orizzonti di scelta culturale e prigionieri di immaginazioni parassitarie costituisce la seconda decisiva morte che l'evento luttuoso può trascinarsi dietro; perciò nella morte della persona cara siamo chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte», (De Martino, p. 8). La risposta umana al dolore della morte è stata da sempre di tipo culturale: il «saper piangere» i nostri morti significa trasformare il dolore individuale in un dolore istituzionalizzato attraverso il rito funebre. Ma se, come nel caso particolare di Ida Laquidara, non sappiamo nemmeno che fine abbia fatto il defunto, allora il rito diviene impossibile e il vivo si trova nella condizione che «invece di far passare ciò che passa (cioè di farlo passare nel valore), noi rischiamo di passare con ciò che passa», (p. 21). In una parola: di rimanere bloccati in un eterno presente.


E Nadia Terranova non fa che confermare più volte all'interno del romanzo quanto sostiene De Martino. Quando per esempio fa dire a Ida che: «Così, a tredici anni ero diventata la figlia di uno scomparso: i morti veri muoiono, si sotterrano e si piangono, mentre mio padre era svanito nel nulla e per lui non ci sarebbe stato nessun 2 novembre, nessun calendario, non ne avrebbe più avuto uno e non l'avremmo avuto neppure io e mia madre», (p. 26); o ancora, poco più avanti: «Sono passati ventitre anni, pensai. Cosa ho fatto in questi ventitre anni, dove sono stata, a chi ho dato ascolto. Potrebbe esserci accanto a me un'estranea di ventitre anni nata il giorno in cui se n'è andato, e accanto la bambina di tredici, ferma per sempre a quell'età», (p. 27) Terranova non fa che portare la narrazione verso una estrema conseguenza: «La mattina in cui mio padre era uscito da casa e non era più tornato non era ancora finita: dentro di me l'orologio non aveva mai segnato il pomeriggio», (p. 32). Ciò che però sorprende il lettore è che la condizione di vivere in un eterno presente non colpisce solamente la protagonista e la madre, cioè coloro che dovrebbero passare oltre il lutto, ma anche e in primis proprio colui che dovrebbe essere morto, cioè Sebastiano Laquidara:

«Quella mattina di ventitre anni prima mio padre aveva aperto gli occhi alle sei e sedici, le cifre erano rimaste sulla sveglia con un colpo netto, seicentosedici, sei uno sei, e per giorni sul lavabo era rimasto il suo spazzolino blu, steso fuori dal bicchiere dove tenevamo tutti e tre i nostri, portandosi appresso una scia di dentifricio come bava di lumaca […] Poi le giornate si erano trasformate in un'unica grande giornata. Mio padre aveva lasciato il lavoro, mia madre aveva dilatato il suo all'infinito; lui restava a dormire, lei inventava ogni scusa per andare al museo. Il letto dove un tempo i miei genitori si erano amati, mi avevano concepita, erano stati felici e giovani era diventato l'alcova di mio padre con la sua depressione», (pp. 43-44).

Nadia Terranova sottolinea qui un elemento alquanto importante: anche la depressione rischia di trasformare il vivo in un morto, di bloccarlo in un tempo che non passa mai, che non trascorre, che non è in grado, cioè, di esaurirsi. E la crisi della presenza diviene allora, in Addio fantasmi, una vera catena umana: dalla depressione del padre alla sua ipotetica morte, all'incapacità di Ida e sua madre di relazionarsi con quella stessa morte, fino all'incapacità di Ida di relazionarsi con la vita e di bloccare nella crisi della presenza anche il compagno con cui:

«Progettavamo castelli in aria per sospingerli in una deriva inutilizzabile. Bambini non ne venivano e nessuno dei due parlava di cercarli, di andare a prenderli, io alle assenze ero abituata e mio marito si era abituato con me; saremmo invecchiati vicini, saremmo invecchiati con addosso lo sguardo dei nostri coetanei che diventavano genitori e poi di nuovo genitori, riproducendosi ancora all'età che avevano nostro padre e nostra madre quando noi da figli li guardavamo, l'età delle coperte color ocra, l'età in cui mamma e papà erano già adulti ma ancora giovani e fertili. A quell'età avevo fissato per sempre i miei genitori, un'età limpida nei ricordi, che io e mio marito stavamo per raggiungere e oltrepassare», (p. 88).

Ma se è vero che «Il trascorrere del tempo restava, per me, una grande fatica», (p. 141) il romanzo di Nadia Terranova si dimostra nondimeno il luogo in cui Ida Laquidara riesce a superare la propria crisi, attraverso una via via maggiore presa di coscienza di che cosa significhi mancare il cordoglio. Non a caso Mariolina Bertini scrive su L'Indice che per Ida il ritorno a casa è «un'esperienza opprimente». Una esperienza appunto, che comincia confrontandosi con il ricordo del padre:

«Tutto è vero nelle mie fantasie, tutto è presente assoluto […] Gli oggetti non sono affidabili, i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni. Le usiamo per tenere la crepa aperta e ci raccontiamo che la memoria è importante, che noi soltanto ne siamo guardiani. Teniamo la ferita larga perché ci stiano dentro i nostri mali, i nostri timori, stiamo attenti che sia profonda abbastanza da contenere il nostro dolore, guai a lasciarlo vagare. Esistono solo le ossessioni, e intanto il tempo le ha rese più vere di noi», (pp. 143-145).

A cui segue, più avanti, una dichiarazione maggiormente esplicita: «Ci ostiniamo a ritenere la memoria una torta che si può condividere, e mai ci rassegniamo che un fatto non è un fatto non è un fatto – una rosa non è una rosa non è una rosa […] No, un fatto non è un fatto: è forse un dettaglio a cui diamo risalto per un momento», (p. 159). Ida Laquidara si rende conto, cioè, che non solo il ricordo è qualcosa di piuttosto difficile da definire, ma soprattutto che tra ricordo e ossessione c'è una differenza notevole. E che, tra ricordo e ossessione, Ida è stata sempre imprigionata nella seconda. Quando si trova in macchina con Sara, l'amica di infanzia con cui tenta un ricongiungimento che non avviene, immagina inoltre di vedere il padre risalire scalzo dalla spiaggia, indossando il giubbotto blu che aveva comprato poco prima di ammalarsi, e a quel punto pensa: «Le mode si trasformavano ma il giubbotto no. Non cresce, mi ripetevo a proposito della ragazzina ferma a tredici anni che viveva dentro di me. Non cambia, diceva il giubbotto di mio padre. Ciò che non si trasforma non è reale; niente, nella mia vita, si trasformava», (p. 157).


Che cos'è questa, se non la presa di coscienza di stare attraversando proprio ciò di cui parla De Martino nel suo saggio? Ricapitoliamo, in breve, i passaggi: dapprima Ida si rende conto che il proprio ricordo non è un ricordo, ma una ossessione; poi capisce che non solo vive in un eterno presente, ma che quell'eterno presente non è la realtà. E a questo punto entra in scena Nikos, o meglio la morte di Nikos, l'operaio cioè che, assieme al padre, si stava occupando della ristrutturazione della casa di Messina e che racconta a Ida la propria storia: era innamorato di una ragazza che però aveva una relazione con il suo migliore amico. Una sera, Nikos e la ragazza fanno un incidente, dove lei perde la vita. Il ragazzo però non può partecipare al funerale. Nikos allora si trova nella stessa condizione di Ida: «Era diventato un sopravvissuto e lo sarebbe rimasto fino alla morte: impaziente, aveva voluto accorciare il tempo che lo separava dalla fine. Nessuno è vivo – tutti noi siamo soltanto: ancora vivi. Abbiamo il tempo del «per ora», (p. 190).


Il funerale che chiude il romanzo diventa per forza di cose un rito simbolico: Ida e sua madre si recano al funerale di Nikos e, attraverso la morte del ragazzo, è come se stessero finalmente seppellendo Sebastiano Laquidara. È questo che fa la differenza tra il romanzo di Terranova e il saggio di De Martino: sebbene il rito rimanga qualcosa di essenziale per passare con i propri morti, Ida ci arriva solamente dopo essere riuscita a comprendere da sola che cosa significhi la crisi della presenza. Verrebbe da dire che arrivati fino a qui quasi non ci sarebbe stato bisogno, di quel rito. E che, dopotutto, la verità che ci lascia il romanzo sia un'altra: «Amiamo le nostre ossessioni, e non si ama ciò che ci rende felici, al contrario. Ci attacchiamo gli uni agli altri, e nessuno è fatto di sostanze nobili», (p. 165).



1 Cito dalla nuova ed. Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

2 E a poco serve scoprirle che la causa, in realtà, dipenda dal fatto che i vicini avessero rialzato il proprio balcone di «tre centimetri», causando la caduta d'acqua della casa a fianco.

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