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Immagine del redattoreFederica Ruggiero

Essay | Annotazioni su un uomo inutile: Sedibus ut saltem placidis in morte quiescam

Out of what crypt they crawl, I cannot tell,

But every night I see the rubbery things,

Black, horned and slender, with membraneous wings,

And tails that bear the bifid barb of hell.

They come in legions on the north wind’s swell,

With obscene clutch that titillates and stings,

Snatching me off on monstrous voyagings

To grey worlds hidden deep in nightmare’s well.

Over the jagged peaks of Thok they sweep,

Heedless of all the cries I try to make,

And down the nether pits to that foul lake

Where the puffed shoggoths splash in doubtful sleep.

But oh! If only they would make some sound,

Or wear a face where faces should be found!

- H.P.L., Night Gaunts


(Non so da quale cripta striscino fuori,

Ma ogni notte rivedo le cose rugose,

nere, cornute e sottili, con ali fibrose

e code che portano la bifida barba dell’Inferno.

Vengono a frotte, sulle raffiche di venti del Nord,

con artigli osceni che vellicano e pungono,

rapendomi verso viaggi mostruosi

verso mondi grigi nascosti nel profondo degli incubi.

Mi trascinano sulle guglie appuntite di Thok,

Ignorando tutti i gemiti che tento di emettere,

E giù negli abissi profondi di quel lago osceno

Ove gli Shoggoth rigonfi ristagnano in un sonno incerto.

Oh, se almeno emettessero qualche suono

O indossassero un volto dove i volti dovrebbero trovarsi!

- H.P.L., Magri Notturni)


Bentornati. Quarto appuntamento con Annotazioni su un uomo inutile, rubrica dedicata a Howard Lovecraft. La serie sta iniziando a raggiungere una forma, poiché negli scorsi tre articoli abbiamo gettato tutte le premesse per addentrarci, finalmente, nell’universo narrativo del Lovecraft maturo. Dopo i cenni biografici e l’analisi della sua prima produzione, abbiamo dedicato lo spazio necessario alla sua esigua (ma non per questo meno importante) produzione poetica. In questo articolo, esamineremo la sua narrativa precedente al concepimento del libro maledetto e dei Grandi Antichi, che invece saranno i temi centrali delle storie del Ciclo di Cthulhu, di cui ci occuperemo nel settimo articolo. Questo articolo sarà diverso dai due precedenti: non ci sarà un’analisi integrale dei testi, opera che, vista la mole del materiale, risulterebbe tanto faticosa quanto noiosa alla lettura, ma esamineremo i motivi principali che portarono alla genesi dei racconti del Sogno e dell’Incubo; in seguito analizzeremo i principali temi che caratterizzano queste opere, per delineare, infine, ormai consci di questa porzione della sua narrativa, il rapporto che c’è, per Lovecraft, tra il mondo onirico e la realtà. Il tutto sarà accompagnato da una serie di citazioni tratte sia dai suoi racconti che dalle sue lettere, che potranno farci comprendere meglio l’opera e l’universo cognitivo e culturale dell’autore attraverso le sue stesse parole.


I.

Dicevamo: Sogno e Incubo (di nuovo). Come nella produzione poetica allora, anche negli scritti in prosa il mondo onirico per Lovecraft è alla base della scrittura. Iniziamo come sempre dall’analisi del titolo dell’articolo: il verso riportato (Eneide, VI, 371: possa io, almeno nella morte, riposare in un luogo tranquillo) si trova in epigrafe al racconto The tomb, il primo che Lovecraft scrisse in seguito alla decisione di abbandonare l’attività poetica. Nell’Eneide, la frase è pronunciata da Palinuro, il nocchiero di Enea caduto in mare e ucciso dalle genti Italiche (la zona in cui avviene il mito è quella corrisponde all’attuale Salento), che Enea stesso incontra, durante la catabasi, tra le anime degli insepolti, poiché il suo corpo era stato abbandonato in mare. Palinuro rivela la posizione del suo cadavere e prega Enea di seppellirlo, così da potere avere accesso all’Ade. Lovecraft, come ormai sappiamo, aveva una solidissima conoscenza linguistica del latino e assieme dell’universo culturale e letterario classico (spesso sognava di essere un uomo dell’antica Roma e si divertiva a cercare di capire in quale epoca la sua fantasia onirica lo avesse portato esaminando gli abiti delle persone, oppure in base alle cariche istituzionali presenti nel suo sogno). Non stupisce che possa essersi identificato, in qualche modo, con la figura di Palinuro, eterno tormentato abbandonato a sé stesso.


The tomb (anche il titolo ci comunica la predilezione di Lovecraft per il mondo latino, attraverso l’utilizzo del termine di ascendenza romanza tomb, proprio di un inglese più aulico, rispetto al germanico grave, più colloquiale), infatti, risale al 1917, due anni prima che anche sua madre venisse ricoverata in manicomio. Possiamo quindi supporre che gli squilibri mentali di Sarah, a tanti anni dalla morte del marito, fossero notevolmente peggiorati, e che questo abbia avuto degli effetti devastanti su Lovecraft. Non sappiamo, inoltre, se la madre di Lovecraft fosse al corrente del fatto che il figlio avesse deciso di abbandonare i versi per tornare alla prosa e, in caso, come potesse avere reagito alla notizia. Sta di fatto che il Lovecraft del periodo subito successivo all’abbandono della poesia è una creatura stanca, nel senso letterale del termine: un uomo che non riesce a trovare riposo in alcuna situazione (a eccezione dello studio e della scrittura), tanto meno nel sonno, che in quel periodo era spesso turbato dagli incubi causati dalle follie della madre. Considerando innanzitutto l’atmosfera di perenne lutto creatasi in seguito alla morte della nonna (vedi secondo articolo), per continuare con la convivenza forzata con una madre squilibrata, non stupisce che per quei lunghissimi anni (fino al 1919 circa) Lovecraft abbia sofferto di incubi ricorrenti, che gli impedivano, appunto, di trovare riposo; non a caso, spesso la notte era il suo momento prediletto per lo studio e la scrittura, attività che, oltre a farlo fuggire temporaneamente dalla realtà orribile in cui viveva, lo tenevano sveglio e lontano dalle sue visioni oniriche (in una lettera, datata maggio 1920, scrive di essersi reso conto, al risveglio da un incubo, di essersi addormentato sulla scrivania mentre studiava).

Scendiamo ora più nel dettaglio: da chi e da che cosa era popolato il mondo onirico di Lovecraft? La figura più precoce e inquietante sviluppata dalla sua fantasia maniacale è quella dei Magri Notturni (Night Gaunts). Il sonetto riportato in cima all’articolo appartiene a Fungi from Yuggoth e ci descrive la fisionomia di queste creature che popolarono i sogni della sua infanzia (dal 1896 al 1900 circa), da lui riportata anche in una lettera a Virgil Finlay, (24 ottobre 1936). I Magri Notturni (nome inventato da Lovecraft), sono delle «cose nere, magre, rugose, con code lunghe e pelose, ali di pipistrello, e nessuna traccia di un volto». Queste creature, molto probabilmente, scaturirono dalla continua visione delle zie vestite sempre di nero e con la veletta (tipica delle ricorrenze luttuose) che copriva costantemente il loro volto, unita alla contemplazione delle illustrazioni di Gustave Doré presenti su una copia del Paradiso Perduto, che Lovecraft aveva trovato frugando nella biblioteca di casa sua.

Che cosa facevano i Magri Notturni nei sogni di Lovecraft?

«Mi afferravano per lo stomaco (cattiva digestione?) e mi trasportavano attraverso leghe infinite di spazi oscuri verso le torri di città morte e orribili. Poi emergevano in un vuoto grigiore, e in lontananza potevo vedere le vette, acuminate come aghi, di enormi montagne. Finalmente, mi lasciavano cadere: e mentre acquistavo velocità nel mio volo di Icaro, cominciavo a svegliarmi in preda ad un tale terrore che mi riusciva insopportabile l’idea di addormentarmi di nuovo. […] A volte, avevo la vaga idea che abitassero in nere caverne che traforavano come un favo le vette di certe montagne incredibilmente alte. Venivano in stormi di 25 o 50, e a volte mi facevano volare dall’uno all’altro. Notte dopo notte sognai lo stesso orrore, con piccole varianti» (ibidem).

Come biasimare il desiderio di Lovecraft di rimanere sveglio? Chiunque, conscio di andare incontro a incubi del genere, che probabilmente lo avrebbero fatto svegliare più stanco di quando era andato a dormire, avrebbe preferito restare sveglio. In una lettera precedente a quella sopra citata, datata 16 novembre 1916 e indirizzata a Reinhardt Kleiner, Lovecraft dice:

«Son passati ormai quindici anni da quando ho visto per l’ultima volta un Mago Notturno, ma ancora oggi, quando sono mezzo addormentato, e mi capita di lasciarmi andare all’onda dei ricordi d’infanzia, sento un brivido di paura, e istintivamente lotto per tenermi sveglio. Questa era la mia sola preghiera nel ’96, ogni notte: restare sveglio, e lontano dai Magri Notturni».

Alla luce di questo, possiamo comprendere perché la citazione del verso in epigrafe a The Tomb sia risultata particolarmente cara a Lovecraft. In essa si intrecciano i due temi del riposo e della preghiera, rivolta nell’originale latino dall’anima di un morto che spera di poter accedere all’oltretomba, nell’assimilazione lovecraftiana invece da un vivo che cerca disperatamente di trovare riposo nel sonno e inizia a pensare che, purtroppo, potrà trovarlo soltanto nella morte. Inoltre, la citazione diventa ancora più significativa se pensiamo alla risposta che la Sibilla Cumana dà a Palinuro, che Lovecraft sicuramente conosceva benissimo e con la quale, probabilmente, si sarà identificato:

«Unde haec, o Palinure, tibi tam dira cupido?/ tu Stygias inhumatus aquas amnemque severum/ Eumenidum aspicies ripamve iniussus adibis?/ Desine fata deum flecti sperare precando.» (Eneide, VI, 373-376: «Da dove, o Palinuro, ti viene una così empia brama? Forse vedrai non sepolto le onde Stigie e il severo fiume delle Eumenidi, e senza comando approderai alla riva? Cessa di sperare che le decisioni degli dei possano essere piegate dalle preghiere»).

Illustrazione di un Mago Notturno

Il quadro fin qui tracciato sembra terribile: ci verrebbe da chiederci come mai Lovecraft, intrappolato in un mondo del genere, non si sia volontariamente dato la morte. Molto probabilmente il ricovero della madre ebbe un effetto positivo su di lui, perché le notizie che abbiamo circa i suoi sogni posteriori al 1919 ci lasciano ipotizzare un periodo di relativa serenità interiore. Certo, gli capitò anche in seguito di soffrire di incubi, a volte anche frequenti e ricorrenti a seconda dei periodi della sua vita (uno di questi fu probabilmente il periodo della scoperta di Plutone, che portò alla stesura di Fungi from Yuggoth, vedi articolo precedente), ma la cosa essenziale è che l’avvilente ricorrenza con cui mostri e orrori partoriti dai più oscuri meandri dell’universo lo visitavano in sogno, sembrò diminuire. Abbiamo delle descrizioni stupende dei panorami sognati da Lovecraft, di alcune storie particolari e caratterizzate dalla classica incoerenza propria dei sogni, alternate con alcuni incubi ispirandosi ai quali, a detta dell’autore stesso, uscivano fuori i suoi racconti migliori.

Tra le immagini oniriche ricorrenti in Lovecraft abbiamo, per esempio, la città dorata. La sua descrizione ci è pervenuta da una lettera a Maurice Moe del 15 maggio 1918. Stando a quel che ci dice, Lovecraft sognò:

«una città di molti palazzi e cupole dorate, che si stendeva in una stretta valle tra catene di montagne grigie e spaventose. Non c’era un’anima in quella vasta area di strade lastricate di pietra, di mura di marmo e di colonne, e le numerose statue nei luoghi pubblici rappresentavano strani uomini barbuti con tuniche di cui non avevo mai visto l’uguale. Ero, come ho già detto, cosciente in senso visivo di quella città. Ero in essa e intorno ad essa. Ma è certo che non avevo un’esistenza corporea».

Nel caso specifico di questo sogno, non è possibile ricondurre l’ambientazione a uno o più racconti determinati. Come già detto, nelle opere in prosa spesso il sogno funge da spunto per costruire un’ambientazione totale o parziale, in cui poi si inserisce una storia. La figura dell’uomo barbuto è presente fin dal racconto giovanile The alchemist (vedi secondo articolo), mentre una città di torri e cupole, dorate o meno che esse siano, è presente in molti racconti, uno per tutti The rats in the walls.


A volte, tuttavia, ci è possibile ricondurre un sogno o un episodio biografico a un racconto specifico: è il caso, per esempio, di The Cats of Ulthar e di Cool Air. Il primo prende spunto da un sogno che Lovecraft ebbe nel 1920, riportato nella sua lettera a William Lumley del 20 giugno 1936: «la città sembrava fosse stata costruita da e per esseri umani vissuti eoni prima, ma i suoi attuali abitanti felini vi risiedevano palesemente da secoli». Da questa visione Lovecraft ricavò un racconto ambientato in una città popolata da uomini (Ulthar, appunto), ma in cui i gatti ricoprivano un ruolo molto importante e simbolico a tal punto che, lì, uccidere un gatto era proibito dalla legge. A partire da quest’ambientazione in seguito, lo scrittore modellò una storia del tutto originale e indipendente dal sogno. Anche questo racconto contiene una componente biografica. Il profondo amore di Lovecraft per i gatti, sconfinante quasi nella reverenza, era noto a tutti i suoi conoscenti e amici. Paul Cook ci racconta che, una volta in cui Lovecraft fu suo ospite, mentre la sera chiacchieravano in salotto, il suo gattino, allora ancora cucciolo, si accoccolò sulle gambe dello scrittore e si addormentò. Quando Cook andò a letto lasciò Lovecraft solo in salotto, conscio delle sue abitudini da nottambulo. La mattina seguente, scendendo in salone, Cook trovò Lovecraft nella stessa identica posizione in cui lo aveva lasciato la sera prima: seduto in poltrona con il micino in grembo. Quando gli chiese se fosse andato a dormire o meno, Lovecraft rispose: «No. Non volevo disturbare il micio».


Il secondo racconto, invece, è la sintesi letteraria di una serie di disagi che lo scrittore stava vivendo in quel periodo. Esso, infatti, appartiene al cosiddetto “periodo newyorkese”, ossia al periodo in cui Lovecraft visse con quella che per due anni fu sua moglie. Sappiamo che Lovecraft odiava il freddo, gli ambienti eccessivamente urbanizzati e lo squallore delle camere ammobiliate in cui dovette adattarsi a vivere. Lo scrittore prese questi elementi e li rielaborò, proiettandoli su una situazione esterna e non più strettamente personale, conscio della funzione esorcizzante e lenitiva che la scrittura aveva su di lui.



II.

Già da questa rassegna, apparentemente lunga ma brevissima se rapportata alla vastità delle opere dello scrittore, ci si può rendere conto della moltitudine di temi che popolarono la sua produzione narrativa compresa tra la fine del decennio poetico e la creazione dei Grandi Antichi. Di questi temi, almeno altri due meritano una trattazione a sé stante.

Il primo è, senza dubbio, il tema dell’ineffabile e dell’ignoto. Nei racconti di Lovecraft, un elemento costante è la rappresentazione della piccolezza dell’uomo di fronte a sentimenti ancestrali quali, innanzitutto, la paura (e, più in particolare, la paura dell’ignoto). Inoltre, Lovecraft non manca di sottolineare come le facoltà intellettive dell’uomo siano limitate e incapaci di cogliere la portata di entità presenti da quando il mondo e il cosmo stesso sono esistiti, di cui la razza umana nulla ha saputo fino a quel momento, e per sua fortuna, poiché la contemplazione anche minima di una parte di esse (a glimpse, per usare un’espressione molto cara all’autore, da lui utilizzata frequentemente) avrebbe generato in esso angoscia, terrore e, infine, follia. La ragione, nella narrativa lovecraftiana, è la grande sconfitta di fronte ai segreti dell’universo, troppo profondi per poter essere indagati anche solo lontanamente e che, con le loro leggi che sfuggono alla portata dell’essere umano, generano un sentimento di terrore, poiché:

«the oldest and strongest emotion in mankind is fear, and the oldest and strongest kind of fear is fear of the unknown» («Il sentimento più antico e potente nel genere umano è la paura, e la paura più antica e più potente è la paura dell’ignoto»; incipit del saggio L’orrore soprannaturale nella letteratura).

Qualora, disgraziatamente, un uomo riesca a contemplare un frammento di Antico, la conseguenza potrà essere una sola: la follia.

Il secondo tema, derivato dalla concezione ineffabile dei sistemi dell’universo e dalla considerazione di piccolezza della ragione umana, è quello del mondo esterno: l’Altrove. Come ricorderete, nel secondo articolo, analizzando il racconto The secret cave, scrissi che l’opera introduceva la tematica del mondo “altro” rispetto a quello conosciuto, che sarebbe stata ricorrente nella successiva produzione lovecraftiana. Infatti, nella narrativa del Sogno e dell’Incubo (e ancora più, come vedremo, nelle storie del ciclo di Cthulhu) troviamo spesso la presenza di uno o più microcosmi alieni a quello conosciuto, totalmente indipendenti da esso e talvolta con delle leggi naturali diverse da quelle note. Tali mondi esterni e sconosciuti sono la sublimazione del tema dell’ineffabile e dell’ignoto: cosa, più di un mondo finora mai visto dall’uomo, può generare in lui angoscia e paura dell’ignoto? I protagonisti dei racconti di Lovecraft non sono eroi che coraggiosamente combattono contro ciò che li minaccia o che essi percepiscono come minaccioso; sono, piuttosto, gli sfortunati che hanno casualmente avuto l’occasione di contemplare, per un fuggevole ed eterno istante, l’ineffabile, e che, per questo, hanno perso la loro sanità mentale. Non c’è via di scampo allora, secondo Lovecraft, dopo che si sia fissato negli occhi l’orrore che si cela nei meandri del cosmo; orrore che, ovviamente, non va inteso in senso assoluto, in quanto i mondi esterni lovecraftiani non sono percepiti come entità malvagie, ma vengono considerati tali dall’uomo (che da sempre teme ciò che non riesce a comprendere) in quanto sconosciute e inconoscibili e che, come detto, lo porteranno inevitabilmente alla follia.

III.

Resta da chiarire un ultimo punto: abbiamo detto che Lovecraft prendeva ispirazione per i suoi racconti da ciò che vedeva in sogno, ma anche, talvolta, da alcuni episodi biografici. L’accostamento di queste due sfere (Sogno e Realtà) non è privo di significato. Prima però di addentrarci nell’analisi di questo tema, è necessario spendere qualche parola su uno degli autori che influenzò maggiormente Lovecraft: Lord Dunsany.

Dunsany fu un esponente del movimento letterario chiamato Celtic Revival, che si prefiggeva come obiettivi il recupero delle ancestrali tradizioni irlandesi come forma di opposizione all’establishment britannico, e la partecipazione alla società magico-occultistica Golden Dawn (cui parteciparono molti scrittori degni di nota, come Arthur Machen e Bram Stoker), che influenzò moltissimo la letteratura dell’orrore e del soprannaturale del primo quarto del ventesimo secolo. Lovecraft, in una lettera a Clark Ashton Smith datata 30 luglio 1923, scrisse:

«Lord Dunsany mi ha influenzato più di qualsiasi altro scrittore ad eccezione di Poe. La sua lingua opulenta, il suo punto di vista cosmico, il suo remoto universo di sogno, il suo prezioso senso del Fantastico: tutto ciò mi attrae più di qualsiasi altra cosa nella letteratura moderna. Il mio primo incontro con la sua opera, nell’autunno del 1919, ha conferito un impeto immenso alla mia narrativa; forse, l’impulso maggiore che abbia mai ricevuto…».

Lovecraft rimase molto impressionato dal singolare impasto narrativo proprio dello stile di Dunsany, in cui i protagonisti non erano comuni mortali ma divinità o semidivinità facenti parte di un pantheon di sua invenzione, e la cui struttura riprendeva la filigrana dei sogni, idea ricavata dalle pratiche di autoipnosi imparate alla Golden Dawn. Inoltre, Lovecraft fu anche soggetto di influssi analoghi fin da bambino. Intanto, la sua precoce lettura dei classici lo portò a sviluppare, in giovane età, un enorme fascino per le mitologie fiabesche, e arrivò addirittura ad autoproclamarsi seguace di Apollo e sodale dei fauni, sviluppando una singolare fede idiosincratica di stampo pagano. Inoltre, da ciò che abbiamo esaminato in questo articolo, ci è ben chiaro come Lovecraft, per avere visioni dello stesso stampo di Dunsany, non avesse bisogno né di pratiche di autoipnosi, né di supporti chimici di alcun tipo, essendo già spesso soggetto di sogni a dir poco strabilianti che per tutta la vita arricchirono o turbarono il suo sonno.

Quando Lovecraft si imbatté per la prima volta in un romanzo di Dunsany, nel 1919, aveva ricominciato a scrivere narrativa da appena due anni, e tutti i racconti scritti fino a quel momento erano trascrizioni di sogni (stilisticamente più vicine alle opere poetiche) o comunque contenevano ampie scene tratte da sogni (quest’incatenamento alla scena onirica diventerà meno vincolante nella sua narrativa più matura). I suoi racconti immediatamente successivi all’incontro con Dunsany rivelano una prosa sempre più ampollosa, a tratti barocca, che aveva la funzione di rappresentare un mondo onirico straordinariamente complesso (alternativa alla realtà deludente e misera di cui era protagonista, imitando lo stile di Dunsany). Tuttavia, Lovecraft conferì al sogno una valenza totalmente diversa da quella del Lord irlandese: per lui, il mondo della realtà e il mondo del sogno sono due facce della stessa medaglia, entrambi veri allo stesso modo, interdipendenti tra loro e che si integrano e si completano a vicenda. Il mondo onirico, per Lovecraft, è un nuovo mezzo di conoscenza, valido quanto quello della veglia. Lovecraft fu, a tutti gli effetti, «cittadino di due mondi» (Pilo – Fusco): quello della veglia, monotono e pieno di problemi, e quello del sonno, incredibilmente più ricco e complesso, fonte inesauribile di fascino misterico. Una tematica ricorrente dei racconti del Sogno è, infatti, quella del viaggio mistico; esso funge da tentativo di liberazione dalle costrizioni dello spazio e del tempo, di cui però non costituisce un sostituto, ma che al contrario provvede a integrare e a mantenere unito. il grande merito di Lovecraft fu proprio il riconoscere al sogno (a differenza di Dunsany, per cui l’onirismo rimase sempre un diletto) piena autorevolezza anche nel mondo reale, arrivando a creare una doppia immagine del cosmo.

Per comprendere questo punto con le parole dell’autore stesso, nessuna citazione è più appropriate come quella immediatamente successive all’incipit del racconto The silver key:

«and he had forgotten that all life is only a set of pictures in the brain, among which there is no difference betwixt those born of real thing and those born of inwards dreaming, and no cause to value the one above the other» (e si era dimenticato che tutta la vita è solo una serie di immagini della mente, che non c’è quindi differenza tra quelle nate dalle cose reali e quelle provocate dai sogni, e che non c’è ragione di ritenere le une più vere delle altre).

The silver key appartiene a una particolare saga, quella che più ha a che fare con il sogno: la saga di Randolph carter. Questo personaggio lo potremmo definire un dream wanderer: è l’alter ego onirico di Lovecraft, che vaga nel mondo dei sogni in cerca della conoscenza e che, dopo aver avuto accesso al Mondo al di là del muro ed essere sfuggito all’innominabile, riesce a trovare la chiave d’argento di cui necessita per giungere alla conoscenza e può iniziare la ricerca onirica dello sconosciuto Kadath, che avviene attraverso i cancelli della chiave d’argento. Questi sono, in ordine di composizione e di lettura, i titoli dei racconti della saga di Randolph Carter. I primi due sono racconti brevi, mentre il terzo e il quinto sono racconti lunghi.

The dream-quest of unknown Kadath, invece, è il primo tentativo di romanzo fatto da Lovecraft, che risultò per lui sempre molto insoddisfacente:

«Questo racconto è la cronaca picaresca di avventure impossibili in un mondo di sogno, e lo sto scrivendo senza alcuna illusione che possa essere pubblicato. […] d’accordo con il mio attuale stato d’animo, si basa su un certo ingenuo e fiabesco spirito del meraviglioso […]. A essere sinceri non è un gran che».

Questo è ciò che scrisse Lovecraft ad August Derleth, in una lettera del 19 dicembre 1926. In effetti, l’opera ha ben poco a che fare con il genere romanzo; infatti, risulta caratterizzata da enormi descrizioni e da continui pensieri e flussi di coscienza, rendendo la trama spesso inconsistente e lo svolgimento della storia molto lento. La trama è, appunto, la ricerca del monte Kadath da parte di Randolph Carter, che vaga in questo mondo di sogno cercando di trovare il monte che si narra sia la sede della conoscenza, e che infine si scopre essere la dimora di creature abominevoli e mai viste prima (metafora dei misteri del cosmo, che l’uomo non può arrivare a conoscere senza diventare pazzo). L’ironia della sorte è che, nonostante quello che Lovecraft scrisse a Derleth, The dream-quest of unknown Kadath è considerato da molti l’opera migliore mai scritta da Lovecraft, ulteriore riprova, se mai ce ne fosse bisogno, dello splendore e della straordinarietà dell’universo onirico dell’autore, di cui questo “romanzo” è una sublime sintesi, e del fascino che questo mondo tanto deve aver esercitato su di lui, quanto, ancora oggi, esercita su noi lettori.


Matteo Tedesco



 


Annotazioni su un uomo inutile:

Il solitario di Providence 

Una fantasia precoce e inquieta

Che massa di robaccia mediocre e miserevole!

Un pacifico materialista conservatore

Il Copernico del terrore

That is not dead which can eternal lie, and with strange eons even death may die

Vixi et quem dederat cursum fortuna peregi

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