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Poesia | Zebù bambino di Davide Cortese


Con Zebù bambino (2021) di Davide Cortese ha inizio una nuova collana editoriale a cura di Giovanni Ibello per Terra d'Ulivi. Una conferma, da parte di Ibello, della radice che lo lega alla casa editrice con cui pubblicò l'esordio Turbative siderali (2017) e di cui è possibile leggere quale direzione sia prospettata dalla collana in un intervento su «Menabò». La scelta di Davide Cortese è in realtà la scelta di Gabriele Galloni, a cui il libello è dedicato. Così il nome dato alla collana comincia a farsi subito più evocativo... «Deserti luoghi». Ciò che il mondo della poesia ha perso. Il luogo dove la voce di Gabriele Galloni canta oggi.


Zebù bambino racconta in 21 piccole poesie l'infanzia di Belzebù. Quando Galloni pubblicò In che luce cadranno (2018), a cui seguì Fiori estinti (2019) di Mattia Tarantino, si aprì un acceso dibattito, che a grandi linee ho riassunto qui, a partire da una domanda di Riccardo Canaletti: che senso ha raccontare in questo modo un aldilà? Galloni, in più di una occasione, definì il libro come una «fantasia barocca». C'è una poetica visionaria, in quel libro, anche a carattere compositivo, dal momento che, come mi raccontò un giorno, Galloni ne scrisse oltre la metà in un solo pomeriggio.


È impossibile, per chi frequenta anche poco la scena poetica, non accorgersi di quanto la poesia di Galloni abbia influito su tutta una generazione. Penso, per citare alcuni tra gli ultimi poeti segnalati da Yawp, a Flavia Teneriello, Lorenzo Mele o Riccardo Delfino. O ancora alla recente raccolta di esordio di Paolo Pitorri, Abbiamo discusso dell'aldilà (2021). Ma i nomi sarebbero molti – a volte, forse, nemmeno così consapevoli. Perché il recupero di un mondo costellato da morti che parlano, di angeli e demoni, a volte di paganesimo rituale, si sta facendo a poco a poco generazionale. In questo, credo che Galloni avesse intercettato una sensibilità con cui una generazione di giovani poeti sta cominciando a rispondere al baratro del mondo. Ecco la vera domanda che emerge oggi: perché così e non rispondere invece con una poesia che, magari, affronti di petto il climate change, per dire una tematica che, tra tutte, ci sta spingendo proprio verso quel baratro così avvertito anche nelle poetiche?


Ma torniamo a una delle parole chiavi, la fantasia. «Scoccano insieme | la mezzanotte e il mezzogiorno»: è il deserto luogo con cui si apre Zebù bambino. Sono due versi che immettono subito il lettore in un luogo che non c'è, il luogo prediletto della fantasia, dove Zebù «A dadi inganna il tempo malvagio». E, non a caso, in questo luogo viene posto proprio un bambino, faccia a faccia con la propria creatività che deve dare al luogo una forma, seppure una creatività malvagia. Fa bene Mattia Tarantino, che firma la postfazione, a citare Novalis. E in particolare, oltre ai temi romantici della fantasia e della fanciullezza, del male e del bene, aggiungerei soprattutto una eco di quella «religione poetica»1, in cui il dogma torna a essere mitologia, «costellazione».


Cortese si mette a giocare con il piccolo Zebù abbassando il tono, ricco di rime baciate e di un lessico bambinesco. Se ogni poeta ha il proprio suono, è chiaro che questa melodia è per Cortese un esercizio di stile, lontano dalla potenza e dalla padronanza, per esempio, che ne hanno fatto Vivian Lamarque o Gianni Rodari. Che a volte non riesce, come nella rima «Zebù/blu», e altre volte invece colpisce nel segno, come in «Gesù/Zebù». Questo però non deve preoccupare: sebbene Darkana (2017) sia ancora, a mio avviso, la raccolta più alta di Cortese, in Zebù Bambino è possibile leggerne la sensibilità del poeta, una sensibilità speciale, che in fondo è il fondo di ogni poetica. E che pone dopotutto una delle domande più interessanti: è possibile comprendere Zebù? Se una sensibilità è autentica, non può fare altro che fare rima con la parola empatia.


Ruba la spada di legno a Gesù

quel monello del bimbo Zebù

gli pesta i piedi, gli fa lo sgambetto

non gli risparmia neppure un dispetto.

Tira le trecce a Maria, sua madre.

Per correre al circo ruba i soldi a suo padre.


*


A chi aspramente lo rimprovera

per qualche suo scherzo atroce

“L’ho imparato dagli uomini”

ogni santa volta dice.


1 Novalis, Inni alla notte. Canti spirituali, trad. Giovanna Bemproad, introd. Ferruccio Masini, cit., p. XXXV, Garzanti, 1986.

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