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Racconto | E infine proclamò lo stato d'assedio, di Federica Ruggiero

Questo racconto è apparso anche su Verde Rivista.



Derubato. Assurdo certo, ma senz’altro plausibile.

All’interno dell’appartamento non giungevano che suoni smorzati. Il sole era calato. Il cielo asfissiava la città in una morsa di venature rossastre come crepe magmatiche. Onde viscose ritraevano le schiume di nuvole. Sul punto di travolgere i palazzi rifratti, e irrimediabilmente sospese nell'esitazione che precede l'impatto. Si apprestava l’oscurità.

Senza alzarsi, Nemo si sporse in avanti e tastò la parete in cerca dell’interruttore. Quando lo raggiunse, la lampadina sbuffando iniziò a scaldarsi. La luce adombrò le sagome lontane e tracciò un confine netto tra ciò che era illuminato e ciò che era inghiottito dal buio. Nemo aveva riflettuto a lungo e all’improvviso quella lampadina svelò ciò che lui aveva impiegato un giorno intero per concepire. L’ipotesi era quella lampadina. Balenata senza proposito, non era che una delle tante possibilità da vagliare nelle situazioni in cui nulla può essere lasciato a sé stesso. Eppure nella sua desolante coerenza era quanto di più logico si potesse supporre.

Nemo era stato derubato. Tutte le ulteriori considerazioni dovevano essere riviste alla luce di questo nuovo orizzonte.

Derubato. Senza dubbio.

Sentì un brivido percorrergli la schiena. Dio, era possibile? Non gli era mai capitato. Non che ci avesse mai pensato. Come pure non avrebbe immaginato di rimanerne tanto scosso. Era turbato e infastidito. Per il fatto in sé. E perché era sicuro di essere stato beffato sotto i propri occhi. Con poco sforzo sarebbe forse risalito al momento in cui avrebbe potuto impedire il furto. Dissezionò i giorni passati nell’ansia di scovare l’errore grossolano che il ladro inesperto aveva sottovalutato, e che adesso lo avrebbe portato alla rovina. Ma in realtà Nemo non aveva idea di quanto indietro dovesse tornare. A prima vista non rilevava dinamiche sospette. La vita di sempre. Nulla in particolare. La rivelazione aveva soltanto sovvertito tutte le precedenti prospettive senza che si potessero scorgere nuovi riferimenti. Nemo impallidì. Gli costò molto poi ammettere di non aver fatto caso di recente a quella cosa.

Si sentì triste.

Indicibilmente triste. Non gli importava niente.

Poteva giustificare la delusione dello stronzetto che lo aveva fottuto quando avrebbe realizzato la fregatura – e diamine, se solo avesse potuto assistere alla scena. Ma la propria delusione? Poteva spiegare la propria delusione a fronte della pressoché totale indifferenza rispetto all’oggetto della contesa? Lo pervase una flebile nostalgia. Non gli importava niente. Non gli importava niente.

Pensò a quella cosa abbandonata in qualche luogo non meglio identificato. Insignificante per lo stronzetto e per tutti gli altri. Perché quella cosa non valeva nulla, a dire il vero. Ma era l’unica traccia di un lontano passato i cui unici testimoni erano scomparsi. Tentando di recuperare i ricordi a riguardo, Nemo constatò con amarezza le evidenti contraddizioni e le lacune della propria memoria. Sgranò gli occhi, il viso contratto in una tensione smorta.

Era stato messo a parte di un segreto che sarebbe morto con lui. Non riusciva nemmeno a stabilire la consistenza di quel dispiacere.

Si passò una mano sulla testa e smosse i capelli unticci. Di sfuggita si sforzò di stabilire l'ultima volta in cui li aveva lavati. E dell'ultima volta in cui si era fatto una doccia. E dell'ultima volta in cui c'erano state occasioni che gli imponevano di farsi una doccia. Pietrificato sulla sedia, Nemo passò pigramente in rassegna tutte le cianfrusaglie disseppellite nella propria ricerca forsennata. Tra gli oggetti sparsi a terra scorse un vecchio pacchetto di tabacco. Lo afferrò e si arrotolò una sigaretta. Si alzò per prendere l’accendino dal cassetto. Prese un bicchiere nel lavello. Era sporco e puzzava di alcol. Ma tanto non avrebbe potuto puzzare più di così. Da un po' di tempo Nemo beveva da solo, il pensiero delle bevute con James-Leopold-e-tutti-gli-altri gli metteva addosso soltanto una repulsiva insofferenza. Anche quelle bevute avevano il sentore di un lontano passato i cui unici testimoni erano del tutto scomparsi. James-Leopold-e-tutti-gli-altri erano scomparsi in effetti. Ma a Nemo non importava forse poi tanto, lo svago che gli procuravano quelle uscite non valeva il gravoso impegno dell'intraprendere piacevoli conversazioni, o semplicemente dell'assumere un comportamento socialmente adeguato.

Il bicchiere era opaco per le colature stratificate. Nemo lo ispezionò e notò qualche goccia ancora sul fondo. Bevve lo scolo e dopo una veloce sciacquata si versò una generosa quantità di whiskey, piuttosto scadente a giudicare dal sapore. Si ributtò sulla sedia, si accese il drum e si lasciò pervadere il petto dal fumo. Ebbe un accesso di tosse che non riusciva a fermare. Guardò la confezione.

SenzaNome nero, e pure secco.

Lo lanciò contro il muro, e tossì. Non appena si calmò, fece un altro tiro e distese i muscoli perché aderissero totalmente alla plastica della sedia. Fumò in silenzio per un po’, fin quasi al filtro, finché quella radicata quiete non lo innervosì.

Soltanto allora notò nell’altra stanza dei bagliori intermittenti che risalivano la parete come scheletriche braccia. Si issò sul bordo del sedile con una leggera fitta al torace. Studiò le minacciose figure evanescenti che danzavano sul muro e gli vennero in mente le macchie di Rorschach. Si slanciò in avanti e senza alcun motivo si avvicinò alla porta come di soppiatto, appoggiando lentamente la pianta del piede per impedire il cigolio del parquet. Mettendo a fuoco, riconobbe la TV. Da quanto era accesa?

Sullo schermo due uomini sedevano uno di fronte all’altro su delle poltrone al centro di una sala fastidiosamente bianca. A destra il MUTE lampeggiava a intervalli regolari. Il più giovane, col gomito sul bracciolo che reggeva tutto il suo peso, ammiccava alla telecamera ed era probabilmente quel sorriso così loquace e sorvegliato a rendere efficaci le sue parole ancor prima che le pronunciasse. Senza mai smettere di lanciare occhiate ben studiate verso il pubblico, si rivolgeva a un uomo che invece si teneva la testa su tre dita producendo delle rughe porose sulla fronte. Nemo si soffermò sul suo aspetto consunto il cui logorio imponeva però profondo rispetto. Non appena si accorse che il bellimbusto aveva assunto un’aria interrogativa, si affrettò a cercare il telecomando per rimettere l’audio. L’uomo si prese qualche secondo per riflettere, ma non abbastanza perché Nemo potesse ascoltarne l’attacco.


[…] Ah ah, partiamo con le domande facili! Bene, dunque... Beh sa, non credo di saper rispondere, a dire il vero. Non che non ci abbia pensato, eh, sia chiaro. Anzi. Anzi... Sa, credo che forse il mio ossessivo pensarci mi abbia impedito una risposta. Mmm, o sarebbe più corretto dire che mi ha convinto a non tentare una risposta. Marx credeva che il motore della Storia fosse la lotta di classe – c'è da dire che il nostro Marx non si è mai tirato indietro nel dare risposte a domande insolubili. Ma se ora ci penso, anni fa una frase mi colpì così profondamente da impormi questo presupposto in ogni mia ricerca. E la frase era: «Tutto si genera con guerra». Sul serio, non riesco a togliermela dalla testa. Ogni cosa nel mondo combatte le altre e sé stessa in una fluttuazione ininterrotta. La terra trema, il mare ondeggia, le fiamme crepitano, tutto ciò che noi chiamiamo mutamento è intrinsecamente guerra. E la Storia non è altro che questo. Fluttuazione. Lo stesso viso rifinito continuamente con nuovi dettagli. Irriconoscibile, eppure così uguale a sé stesso. Ecco, sì, forse ce l’ho. Me la immagino come la “Metamorfosi” di Escher. Insetti, pesci, città, quadrati… Mi spiace se mi sono lasciato andare a queste divagazioni poetiche invece di fornire delle spiegazioni scientifiche, ma non trovo altro modo per farle capire quello che intendo. Il fatto è che la Storia è mossa da un complesso di forze, e il loro effetto non è quantificabile in termini di semplice somma. A poco a poco queste forze, attraverso movimenti appena percepibili ma costanti, operano sulla figura di partenza fino a modificarla radicalmente. La Storia è, se mi consente la metafora un po' ardita, come il sangue dell’organismo universale, e a volte si coagula attorno a istanti ben precisi. Tutte le riflessioni possibili servono a poco in questi casi, non bastano ad affrancarci dallo sgomento che proviamo nell’osservare quei singoli -singolari!- momenti, assolutamente decisivi, in questo interminabile fluire. Che cosa sarebbe successo se durante la Grande Guerra quel soldato britannico avesse premuto il grilletto quando Hitler gli era di fronte? E che cosa se a Cuba l’Unione Sovietica avesse deciso di forzare il blocco navale degli Stati Uniti? E se Vittorio Emanuele III avesse proclamato lo stato d’assedio?[…]


D’un tratto Nemo sente le chiavi girare nella toppa, e ne è grato.

Amore, sei già qui. E non c’è alcun dissenso in questo. La accoglie con insolita allegria. La riempie di baci, a stento la lascia entrare dentro casa. Le prende il viso tra le mani e si china su di lei ancora e ancora, solleticandole la pelle. La solleva da terra e la stringe a sé, distaccandosene un po' per annusare la singolare mistura di fragranza artificiale e di afrore delicato.

Ehi, quanto entusiasmo, hahahahaha, ehi attento, se mi tiri su così mi strappi le calze. Lei finge un tono polemico, ma le riesce con scarsissimo successo. Accenna un sorriso con le guance stanche e arrossate dal freddo. Hai fatto la spesa? Sì, amore. Sono così felice di vederti, devo raccontarti questa cosa che mi è venuta in mente, è incredibile.

Lei si slaccia i tacchi e ciabatta rumorosamente sul parquet senza curarsi delle strisce di cui poi si pentirà. Sì tesoro, dimmi, ti ascolto, mentre sul divano posa la borsa in pelle e il cappotto. Nemo la segue fedele avanti e indietro, come rapito.

Sai, prima stavo mettendo un po’ in ordine e ho ricollegato tutto. Ho sul serio capito che mi è successo, credimi ci rimarrai di stucco. In realtà – non so perché – ero indeciso se dirtelo o no, oltretutto mi rendo conto di quanto possa apparire folle ma poi ho pensato cazzo se non lo dico a te a chi lo dovrei dire? Stavo di là e d’un tratto mi è stato tutto chiar...

Non l’hai fatta la spesa!

Nemo guarda verso di lei ma il riflesso della luce gli permette solo di vedere sé stesso nei suoi occhiali. Ma non gli è difficile immaginarne lo sguardo. Osserva i lineamenti fissati in un’espressione inquisitoria e le braccia sottili incrociate sul seno. Di sottofondo il lugubre ronzìo del frigorifero. Nemo non ha preparato alcuna scusa.

Dai, amore. C'è tempo per la spesa, ti giuro che fra poco esco. Adesso però ascoltami un attimo. Fidati, capirai tutto dopo che te l’avrò raccontato... Perché devi sempre comportarti così? Cos’hai fatto tutto il giorno? Ti avevo chiesto una cosa, una cosa soltanto, e non hai saputo fare neanche quella. Abbiamo ospiti stasera, è tardi e non hai ancora fatto nulla.

Amore, ascoltami cazzo, è importante! Stai rubando tempo prezioso a una conversazione che potrebbe seriamente cambiarci.

All’improvviso si irrigidisce. Eh? Ospiti a cena? Ma di che parli?

Lei modula la voce, sfodera un sorriso gonfio di soddisfazione, come se avesse fantasticato da sola sulla scena più e più volte. Si, ho pensato di dover festeggiare, mi hanno dato la promozione alla fine. Il tono invaghito che non si cura affatto di dissimulare il senso di ridondante trionfo. Dici sul serio, amore? Amore, ma è bellissimo! Sono così fiero. Ma non mi avevi detto niente. (No infatti, proprio niente).

Sì, lo so, hai ragione amore, mi dispiace. Non ho scuse. È che mi hanno sommerso di chiamate e mi è passato di mente. Sai no, Leopold, James, tutti gli altri. Poi ci tenevo a dirtelo a voce. Lei ridacchia felice, e l’intonazione sembrerebbe tradire l’estrema minuzia con cui ha studiato le parole da usare.

L’hai detto prima a loro che a me? Ma poi perché tu hai il numero di Leopold-James-e-tutti-gli-altri? Ahahah, permaloso. Sono quasi più amici miei che tuoi, ormai. Strizza l’occhio e gli dà un buffetto sulla guancia che lui trova estremamente irritante. Nemo sorvola rigettando dentro il malcelato disgusto.

È che stasera speravo di starmene un po’ solo con te. Ne avevo bisogno. Volevo discutere di questa cosa. E i tuoi amici non li sopporto, scusami, lo sai, oggi proprio non ce la faccio.

Tranquillo tesoro, ho invitato i nostri amici. Stasera, hanno detto, una bella sbronza è d'obbligo. Soprattutto per me, in teoria. Io ubriaca, capisci? Hahah, bella sfida. Ma tanto pensavo a una seratina tranquilla, compra pure due cosette e arrangiamo una cenetta semplice.

È troppo. Nemo va nello stanzino a prendere le scarpe, recupera l’occorrente per la spesa, mentre una repulsiva insofferenza gli cresce dentro. Tu arrangi, io non ho proprio voglia stasera. Ehi, ma che c’è? Fermati, dai, aspetta un attimo, non andartene via così. Che hai? Cavolo, io ce la metto tutta, davvero. Perché fai così? Ho organizzato tutto quanto per TE, volevo farti sentire a tuo agio. Ma sembra che non ti importi nulla.

Per me? Lascia perdere.

Nemo si sbatte la porta alle spalle e fa di corsa un piano di scale per non trovarsela sul pianerottolo. Riprende fiato e chiama l’ascensore.

Il campanello metallico tintinna ma Nemo attende ancora qualche istante. La lampadina si sta chiaramente fulminando, lampeggia con un brusio continuo e un’instabilità che sembra voler resistere ancora e ancora. Nemo la studia e si chiede se non sia il caso di usare le scale, per evitare un eventuale black out. O un cortocircuito mentale.

Quella prolungata fissità lo acceca inaspettatamente, e quando Nemo cerca di guardarsi attraverso lo specchio interno intravede soltanto i propri contorni sbiaditi. Intanto qualcun altro approfitta della sua indecisione e l’ascensore se ne va. Stavolta Nemo intravede la propria immagine depositata sul vetro. Ad occhi chiusi appoggia la fronte contro la superficie fredda e prende dei profondi respiri. Osserva il proprio alito appannare l’oblò, e con sforzo quasi sovrumano trae in alto la mano e scrive qualcosa con l’indice. Lentamente.

N-E-M-O. Guarda il vetro e trattiene la vista su quelle linee tremolanti. Se stringe le palpebre riesce a distinguere vagamente la sua figura, senza riuscire più a leggere il suo nome. Contrae tutti i muscoli della faccia e, senza distogliere lo sguardo, sputa.

STRONZETTA, ringhia tra i denti, IO NON SONO NESSUNO.

La pelle si distende di colpo. Nemo indugia in un’espressione impassibile. Prende la carta del supermercato e la spezza in due, senza degnarla di un’occhiata.

Sul viso non vi è che l’apatia di chi ha compreso. Una smorfia di nausea, ma anche l’isterico sollievo dello sbronzo che si libera delle tossine e può riprendere a bere.



Federica Ruggiero

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