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Racconto | Sette lettere

Aggiornamento: 2 feb 2020


Camilla non aveva nulla da dire sullo stato di salute dei marmi delle fontane romane.


Al comune della capitale si poteva contestare una montagna di scelte sbagliate in materia di viabilità, pulizia dei parchi, manutenzione stradale, ma quel preciso faretto giallo colorava alla perfezione la zampa anteriore sinistra del cavallo in salto; anzi, si prendeva su, dalle balze più sotto, anche i riflessi azzurri dell’acqua e li stampava su quei muscoli d’alabastro, involontario tributo al Bernini – e tanto le bastava, a Camilla, in quella sera di maggio.


Era scesa a Roma quello stesso pomeriggio su invito dell’Accademia di Belle Arti, dove avrebbe dovuto tenere un workshop sulla lavorazione della terra cruda nei tre giorni successivi. Collaborava con l’Accademia di Torino, dove aveva studiato, e dove da tre anni aveva aperto un piccolo negozio, uno spaccio dei prodotti delle sue mani d’oro che le stava regalando non poche soddisfazioni economiche. Lampadari, orecchini, piatti, vassoi, lettere con cui gli amici in visita componevano ogni volta le scritte più strane. C’era scritto “AMORE GU” solo due giorni prima, prima che Max ci mettesse mano partorendo, a sua insaputa, uno dei suoi volgarissimi giochi di parole.


Una sera strana, quella. Sembrava che qualche regista nascosto avesse radunato una troupe invisibile per girare un film senza copione e, per farlo, avesse chiesto che la piazza di fronte alla celebre fontana venisse completamente svuotata dai turisti, dai curiosi, dai ragazzi e dai camerieri dal grido facile.


Camilla si guardò attorno per capire il senso di quel regalo. Se le cose non se le spiegava, le sembrava di godersele meno. Non aveva ancora capito che, spiegandosele, le spompava, le scoloriva, e perdeva metà di gusto reale per veder girare i titoli di coda del film mentale sui cazzi suoi.

Faticava a respirare. L’aria era tiepida, e sapeva di salsa.


Faticava a respirare come chi, più che in testa, tiene un uomo per ventricolo. Che fa due, sì, un uomo più un uomo nello spazio di una pompa sola. E va da sé che quest’ultima faccia lo stesso lavoro col doppio dello sforzo.


Una di quelle sere in cui l’amore ti sembra più un parassita che un propulsore, che il conto faccia uno, che il conto faccia due. Come un neonato per seno, e una madre sola.


Da una parte teneva Francesco, suo marito, il fidanzato storico, il concreto e devoto padre di suo figlio Leo. Uno che si smazzava i problemi di entrambi senza troppe lamentele. L’uomo che ogni donna vorrebbe, salvo poi incappare nel rischio di non ricordare affatto per quale motivo lo si era tanto voluto. Come quei luoghi in cui ti senti talmente al sicuro che aggiungi pericolo per controllare che il tempo non si sia fermato, e che la vita ancora pulsi.


Ma era forse lo spazio destro, oltre quella piccola membrana di tessuto, a fare ancora più male. Andrea. Lì si che il sangue fiottava come un torrente, e ogni ondata era lo schiaffo deciso di una lama dal lato del filo, un punteruolo preso di fronte. Lì finivi per pregare, nello stesso tempo, che la botta finisse e non finisse mai, un paradosso, una contraddizione con una folta barba nera e una storia spiacevole – e involontaria, come tutte le storie spiacevoli – alle spalle. Francesco era la dolcezza dell’attracco, Andrea il sublime della tempesta. Ma Andrea era uno stronzo a metà, uno scacchiere in cui nero del respingimento e della chiusura si alternava col bianco di una straordinaria sensibilità.


Chiusura, sensibilità, respingimento, sensibilità, chiusura – Camilla contava le caselle di Andrea mentre solcava a passi lenti la piazza attorno alla fontana. Il ricordo di Francesco, nel frattempo, era così leggero da evaporare, lasciando che la parte cosciente si concentrasse totalmente sui fendenti della perturbazione chiamata Andrea. Com’era possibile che un uomo con così tanto da dare avesse una così fottuta paura di ricevere?


«Perché è talmente abituato a prendere degli schiaffi, che la sola parola ‘ricevere’ lo fa abbassare sulle gambe come se avesse una frazione di secondo per schivare un gancio di Tyson e due frazioni di secondo per metterlo al tappeto» – Max la sapeva sempre lunga; riorganizzare le lettere in chiave volgare lo ispirava.


«Dare è più facile, perché gli permette di sapere prima cosa succederà» – aveva ribadito l’amico.


«Cioè?» – incredula, e con le mani sporche di argilla.


«Cioè: se il suo dare va a segno, fighissimo. Se non va a segno, almeno non ti torna una freccia in culo» – volgare anche nei consigli, il Max, ma preciso come un veterano delle freccette dell’Irish Time Pub.


Da un po’ le tasche mandavano un tintinnio, che Camilla aveva pressoché ignorato – presa com’era dal capitolo sugli “aiuti-fonici e attrezzisti” dei titoli di coda del film sui cazzi suoi. Quel leggero freddo di maggio l’aveva portata a cercare un rifugio per le mani. Nella destra, un euro. Un euro del resto di una lampadina del negozio dove lavorava Andrea. Camilla guardò la moneta, e con un augurio e una promessa di cui ignoro il contenuto, la lanciò nell’acqua. E dall’acqua guardò il faretto, e dopo il faro la zampa d’alabastro del cavallo. Che non sembrava avesse mutato di un millimetro la sua espressione come gesto di riconoscenza, bastardo di un cavallo bastardo.


Rincasò, quella notte, e dopo tre giorni rincasò davvero e trovò Francesco.


Il lunedì andò in negozio e trovò Max fuori dalla porta con una sigaretta in mano.


Espirò il fumo e disse: «Dì mó», e Camilla le raccontò dei giorni romani; o meglio: dei pensieri dei giorni romani, una trama a metà tra il reale e il cinematografo delle sue paturnie. E così, senza nemmeno porvi troppa attenzione, chiuse parlando del cavallo, dettaglio che fece desistere Max dall’operazione del gioco dello Scarabeo volgare con le solite sette lettere in vetrina.


«Tu devi pensare all’amore come a una fontana» – l’aveva buttata lì, ancora con una C di ceramica in mano.


«Max, ma che cazzo c’entra?» – aveva risposto lei, imbufalita per essere stata interrotta.


«Nessuno butta una moneta in acqua sperando che il cavallo prenda vita e ti ringrazi, no?».


«Quindi?»


«Se butti la moneta, lo fai per due motivi. Uno tuo, che io ignoro, e che di solito è il pensierino scemo che sussurri tra te e te prima del lancio. Il secondo è che possiedi una moneta in più rispetto a quella che ti serve per mangiare» – e silenzio.


«Dai, Max…» – lei voleva smorzare.


«Andrea è un cavallo di marmo. Dai quel che hai, e non ti aspettare niente. E smettila di volerlo cambiare. A te piace il riflesso dell’acqua e del faretto, e anche il fatto che sia bello così, immobile. Vedrai che se lanci un euro col sorriso e ti giri senza volere nulla in cambio, nitrisce anche Mattarella da due isolati più in là».


Camilla lo guardava attonita.


«Sì, sì, minchiona. Dai luce, dai luce e basta. Che se ti si fulmina una lampadina tanto sai dove ricomprarla» – avevo detto Max, secco come una tosse da fumo. E aveva preso la porta. Camilla lo guardava andar via di spalle attraverso la vetrina. Si alzò, come per andargli incontro e ringraziare per così tanta amicizia un amico che aveva forse sempre dato troppo per scontato.


Sospirando guardò in basso, verso le lettere di ceramica.


CULO FAN.

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