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Racconto | Oreste

Aggiornamento: 26 dic 2019

Pietro Quadrino è un nome che difficilmente avrete sentito pronunciare nel mondo letterario, nonostante il suo esordio nel 2018 con Provaci ancora Brancusi (Lfa Publisher). Premio Ubu nel 2015 per il miglior spettacolo straniero, il Pietro Quadrino scrittore è senz'altro influenzato da un certo tipo di narrazione; lui stesso non nasconde l'influenza che John Fante ha avuto sulle sue scelte stilistiche, come si evince dalla scelta del titolo del suo primo romanzo.

Qui possiamo vedere un racconto inedito sicuramente distante da quel tipo di prosa, nonostante sia comunque evidente la sua impronta appassionata, quasi naive.



Quel gatto si chiamava Oreste, era tigrato, era marroncino, aveva occhi da gatto verdi. Stava buttato sullo scalino d’entrata di una casa assolata e sonnecchiava con gli occhi mezzi chiusi. Era bello, era un gatto con un bel musetto, con quel portamento reale dei felini che quando si muovono pensi che è giusto; tutti si dovrebbero muovere così, con quell’armonia, con quella delicatezza.

Faceva caldo per la strada, il sole ardeva l’asfalto.

Un rumore, e le orecchiette di Oreste fremerono, l’occhio vispo s’illuminò, espressione seria e maestosa. Il gatto restò immobile, totalmente immobile, così immobile che tutto intorno si fermò.

Il gatto attento, il gatto che ha visto qualcosa: un grosso cagnone nero legato ad un palo della luce, ringhiava e si dibatteva, abbaiava la sua rabbia di cane al guinzaglio, avrebbe tanto voluto affondare i denti nel piccolo cranio di Oreste; non poteva. I cani sono legati, i gatti sono liberi, nell’abbaiare del cane c’è il male di vivere. Oreste pensava: “È molto meglio essere me, che essere lui. Che muso infelice che ha!”, e si riappisolò sotto il sole. Il cane si agitava e il gatto se la dormiva. Poi arrivò un passero e Oreste lo acchiappò con le zampe e con i denti e lo strinse forte, così da romperlo tutto, se lo succhiò un po’ e poi lo lasciò per terra. Poi si stiracchiò e si accoccolò di nuovo. Non c’era niente di meglio. Quando il sole tramontò, Oreste si alzò e andò a passeggiare sui tetti. Così, da lassù si godeva la città nelle ore più belle, tutta riscaldata dalla giornata, illuminata dei colori più diversi, l’arancio, il rosso, il viola. Passeggiava e ammirava la sua città, lui era sua maestà Oreste il gatto. I cani erano stupidi, i passerotti troppo fragili, il gatto era saggio, la sapeva molto più lunga. Girovagava così, sulle terrazze, fra i camini e le antenne, scivolava tra muretti e ringhiere, andava, andava senza meta, sicuro e fiero, con passi dolci su quei cuscinetti rosa morbidi che nascondevano unghie affilate per i ficcanaso e per quelli che fanno le carezze contro pelo. Da là su, si vedevano uomini stanchi che tornavano a casa dal lavoro e madri stanchissime che tornavano a casa dal lavoro, per iniziarne un altro. Dalle finestre salivano su fino al tetto gli odori delle cucine. Oreste si leccò i baffi, lui non aveva nemmeno bisogno di cucinare, o qualcuno lo avrebbe fatto per lui, o avrebbe mangiato crudo, gli andava bene lo stesso. Magari bastava miagolare un po’ per intenerire il cuore ballerino di qualche vecchia signora del quartiere, figuriamoci se non gli avrebbe offerto una bella scodella di avanzi ancora caldi!

Nel miagolio del gatto c’è l’amore ipocrita, opportunista, l’amore infedele.

Qualche stella iniziava ad apparire in cielo, piano piano il blu della notte scendeva a coprire le case, le strade, i vicoli. Oreste continuava il suo giro serale, tanto lui ci vedeva bene anche di notte.

Vedeva quelle donne con i tacchi alti che aspettavano appoggiate ai portoni, quando passava, alcune lo chiamavano con delle smorfie, e lo accarezzavano. E decise di entrare in uno dei portoni, perché i gatti, si sa, sono curiosi. Un corridoio stretto, buio, alla fine un cortile dal quale proveniva un po’ di chiarore. Si stagliavano le sagome di uomini appoggiati alle pareti, e donne in ginocchio davanti a loro, alcuni avevano telefoni in mano e li usavano per illuminare quelle bocche piene dei loro sessi, perché anche l’uomo, si sa, è curioso. Indifferente, tra gemiti e respiri ansimanti, Oreste s’intrufolava nel cortile col suo semplice camminare liscio e sinuoso. Lì, un altro uomo, con la pancia gonfia e col cappello, sgridava una delle ragazze, lei abbassava lo sguardo, lui agitava delle banconote per aria e alzava la voce. Oreste si fermò e si mise a sedere, come si fa a teatro, guardava fisso la scena a pochi metri da lui e con la coda spazzava per terra, muovendola dolcemente da una parte all’altra. Non si mosse neppure quando il pancione diede un pugno alla ragazza. Cadde con il volto a terra e piangeva, e dal naso e dalla bocca le usciva sangue. Allora Oreste si alzò e andò verso di lei e iniziò a leccarle il viso, le lacrime e il sangue mentre quella singhiozzava. Doveva aver perso qualche dente. Poi Oreste cominciò a giocare con i suoi capelli scuri, ci metteva le zampe dentro: gli piaceva impigliarle là in mezzo. Ci sono sempre modi per passare il tempo, anche in situazioni difficili. Poi però il pancione diede un calcio alla ragazza, che urlò, e ai gatti non piacciono le urla e i movimenti sgraziati, troppo bruschi, come quello. Così Oreste scappò via da lì. Saltò su un balcone di una vecchia palazzina tutta rovinata, forse uno di quei brutti motel a ore di una volta, e sbirciò attraverso la finestra. Era aperta e così entrò. Dentro c’era una stanza da letto con una luce fioca che proveniva da una piccola lampada su un tavolo, sul letto nessuno. Ci saltò su e si raggomitolò tra i due cuscini. La notte gli piaceva, era una notte comoda su quei cuscini morbidi.

Un uomo entrò ridendo, era vecchio; con lui una ragazza, lei era giovane. Oreste, dalla sua postazione, spiava silenzioso e attento. Il vecchio si mise a sedere davanti al tavolo mentre la donna giovane entrò in un'altra porta, il bagno. L’uomo iniziò a spargere polvere bianca su un giornale e poi a tirarla su col naso. Gli occhi di Oreste nell’oscurità brillavano come due scintille. Dopo qualche tirata, il vecchio morì, la faccia schiacciata sul tavolo.

Quando la giovane donna rientrò nella stanza, dopo qualche minuto, si mise a urlare pure lei, e Oreste decise di cambiare aria.

La notte profonda invadeva tutti gli anfratti della città, notte tiepida, umida, notte da gatti. Oreste passò vicino a un quartiere residenziale che amava particolarmente perché era profumato, i giardini delle villette erano pieni di fiori, di piante, di vasi. E dentro le case, lui lo sapeva, c’erano altri gatti. Non come lui, gatti da casa, gatti da giardino, col pelo sempre liscio e lungo, grassi e pigri. Lui andava là, saltava sul davanzale delle finestre e se c’era la ciotola del latte, lui se lo beveva, se c’erano i croccantini al sugo di carne, lui se li mangiava, se c’era una micia col pelo grigio e lucente e solo a primavera, lui ci faceva all’amore. L’amore dei gatti strilla e stride, non si sa se di dolore o di piacere, proprio come quello degli uomini.

Quella notte non c’era niente da rubare. Oreste scrutava la via calma e silenziosa. Il gatto non ha bisogno di sapere dove va, cosa fa, a volte è in pura contemplazione, la sua giornata è riempita dall’ozio.

E vide un uomo uscire dai cespugli di un giardino privato, scrollarsi le foglie di dosso e rendere a camminare tranquillo come se fosse uscito da una porta. Figuriamoci, a Oreste non importava proprio niente, ma si mise a seguirlo per vedere un po’ che succedeva. L’uomo girò al primo incrocio a sinistra e poi di nuovo a sinistra, fece il giro dell’isolato e si ritrovò dall’altra parte del giardino dal quale era uscito. Lì, si fermò e iniziò a spiare attraverso le fitte piante arrampicate su di un cancello che lo dividevano dalla strada. Era un roseto e profumava. Dall’altra parte c' era un villino bianco immacolato, con tante finestre e tante porte. Oreste era contento. Così, contento. E allora prese a strusciarsi contro la gamba dell’uomo per grattarsi un po’ e fare le fusa. Chiudeva gli occhi e si sfregava la testolina contro i blue-jeans. Bello grattarsi, su e giù. Poi, l’uomo si mosse, iniziò a scalare il cancello e sembrava difficile, le rose hanno spine, rovi che bucano attraverso i pantaloni e l’uomo si graffiava cercando di scavalcare il più discretamente possibile. E non poté urlare di dolore neppure quando le spine s’infilarono nella carne.

Oreste fece due balzi, col primo s’aggrappò a uno dei rami della pianta. Da lì, col secondo, arrivò fin sopra il cancello. L’uomo l’aveva visto saltare. Era meglio del lago dei cigni, armonia e potenza, l’economia dei movimenti concentrati in un gesto fatto col minimo sforzo, con leggerezza e con superbia.

Scesero entrambi dall’altra parte. Il gatto precedeva l’uomo, camminavano, sgattaiolavano silenziosi cercando di non far rumore quando calpestavano le foglie. L’uomo era un ladro, non sapeva Oreste se di cuori o di gioielli e meno che mai gliene importava, ma gli sembrava buono stare lì con lui, seguirlo dentro i giardini dei ricchi. Proprietari di case bianche con tre piani, balconi, terrazzi, cortili e tutte quelle piante; case con finestre enormi dentro le quali si estendevano enormi saloni illuminati da enormi lampadari.

La luna era spuntata e adesso la faceva da padrona su nel cielo. Anche le nuvole grigie le avevano lasciato posto e se le si avvicinavano, era solo per creare strani giochi di ombre giù sulla terra, dove uomini e gatti potevano nascondersi.

L’uomo e il gatto arrivarono di fronte a una porticina bianca di legno, sul retro della casa. Lui tirò fuori dalla giacca degli attrezzi e cominciò a smanettare la serratura della porta. Oreste andò a perlustrare un po’ il giardino. Dovevano essere ricchi sfondati. C’erano fontanelle d’acqua e grossi alberi con un sacco di rami pieni di foglie. Oreste si fece un po’ le unghie contro uno dei tronchi. Non c’era nessuno in giro, l’aria era buona, ma quando tornò a strusciarsi un po’ contro le gambe del suo amico ladro, che intanto era riuscito ad aprire la porta, capì molto prima di lui che era ora di svignarsela. C’era un cane grosso e arrabbiato dietro la porta e questa volta non era legato a nessun guinzaglio. Per un istante, cane, gatto e uomo, rimasero tutti e tre pietrificati a guardarsi. Gli occhi del gatto erano profondi, gli occhi del cane furiosi, gli occhi dell’uomo tremavano.

Poi d’improvviso tutti si misero a correre, a miagolare, a abbaiare, a urlare.

Il gatto correva davanti, l’uomo correva appresso al gatto, il cane correva appresso all’uomo. Arrivati davanti al cancello il gatto saltò. Con due balzi era su, bello come un gatto. L’uomo saltò e rimase appeso per un attimo alle piante, ai rovi. L’attimo dopo anche il cane saltò e rimase appeso all’uomo con la bocca, le zanne, le unghie dentro i polpacci e le cosce.

Oreste stava su e non poteva fare altro che guardare un po’, poi andarsene e lasciarsi dietro le urla lancinanti di un povero ladro.

A Oreste piaceva andare a zonzo la notte e poi dormire di giorno sotto il sole.

Il suo giro era quasi terminato quando dall’alto di una palazzina, un gabbiano disse:

- Oreste?

- Sono io. che vuoi? I gatti non parlano.

- È vero che sei il migliore dei gatti?

- Chiaro.

- È è vero che il gatto è il migliore degli animali?

- Sicuro.

- È vero che avete sette vite?

- Anche di più.

- Ma se non sai nemmeno volare, non sei il migliore.

- Non mi serve volare.

- Non sai nemmeno nuotare.

- Non m’importa.

- Non vorresti provare una volta?

- No.

- Ti posso prendere con me e farti fare un giro, vedresti la città all’alba come non l’hai mai vista. Non vorresti provare una volta?

Anche i gatti a volte inciampano.

- Va bene, proviamo.

Il gabbiano scese giù, afferrò Oreste da dietro il collo, lì da dove si prendono i gatti, a lui non piaceva tanto. Fino a quel momento non aveva mai avuto voglia di nient’altro, niente più di quello che aveva: il pisolino sotto il sole di mezzogiorno, le passeggiate, gli amori primaverili. Adesso il gabbiano gli aveva dato voglia di volare, perché lui non poteva farlo e di solito lui poteva fare tutto quello che gli pareva.

E volare era bello, faceva fresco, ma lui aveva una buona pelliccia e i primi raggi di luce già cominciavano a scacciare la notte. Presto, il  calore avrebbe di nuovo avvolto la città. Vide cose che non aveva mai visto prima, i tetti con i camini sui quali amava bighellonare, i cortili delle case e tutto pian piano iniziava a prendere colore, il colore freddino e promettente della mattina.

Poi in lontananza vide qualcosa di straordinario. C’era come un altro cielo, tutto blu, però al contrario, sulla terra!

Sì, lì in fondo all’orizzonte, la terra finiva e iniziava una grande distesa blu di cui non si vedeva la fine. Ma era anche più bello del cielo che era abituato a vedere, perché man mano che il sole si affacciava sul mondo, quel cielo iniziava a luccicare, i raggi di luce si riflettevano e brillavano su di lui e si muoveva!

Gli occhi di Oreste si fecero grandi, non aveva mai visto niente di simile in tutte le sue vite da gatto, era meraviglioso.

- Quello è il mare - disse il gabbiano.

- Portami là - disse Oreste.

Volarono e arrivarono veloci sopra il mare, in mezzo a tutto quel blu di sopra e di sotto.

- Lasciami - disse Oreste.

E il gabbiano lo lasciò.

Fu come un gatto che casca nel mare.

I gatti non sanno nuotare e odiano l’acqua. Oreste lo sapeva e prima di annegare ripensò a tutte quelle giornate buone, vissute fino in fondo senza fare nulla, senza pretese, aspettando che succedesse qualcosa sotto il sole, e poi, visto che non succedeva nulla, addormentandosi di nuovo e via così. E fu contento ripensando a quei giorni.

Inghiottì acqua salata, divenne pesante, tutto si fece blu, vita da gatti, poi l’acqua salata lo inghiottì.

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