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Recensione | Acari di Giampaolo G. Rugo

Al tempo della mia prima crisi allergica, qualche annetto fa, in casa non tenevamo un aspirapolvere con spazzola flottante. Non avevamo neanche il Ventolin o compresse di Bentelan ma solo il vapore dell’acqua della doccia che, quando l’asma prendeva a sorpresa e in piena notte, riempiva il bagno di nebbia calda. Al mondo igienico, il mondo evoluto dove il parto era medicalizzato e il latte più quotato quello artificiale, improvvisamente non apparteneva più casa nostra.

Il nemico non è più il pidocchio, aveva detto l’allergologo. Il nemico non è la pulce, chi ce le ha le pulci qui in città? Niente più scabbia. Il vero nemico, e q aveva lasciato vagare lo sguardo nell’ambulatorio spoglio dove io, sei anni, stavo stesa su un lettino dietro le spalle dei mie, il nemico è l’acaro.

L’acaro si era annidato nelle nostre abitazioni, indisturbato aveva fondato colonie al tepore dei caloriferi.

Da qui piccolo prontuario: avete la moquette? Per fortuna no ma togliete anche il tappeto; le tende via, anche se sono quelle con Speedy Gonzales; non usare più coperte di lana. Ma soprattutto: fuori tutti i pupazzi.

Ora, qualche annetto fa, la mia camera era la riserva del peluche, soprattutto di quelli in via di estinzione. Progenitori degli animaletti Trudi, scientifico anello di congiunzione fra natura e giocattolo, i miei erano enormi, dai colori acidi, col pelo dichiaratamente sintetico, imbottitura che sfuggiva dalle cuciture, occhi vitrei quando li avevano, così unti per i passaggi di mano in mano sulle scale condominiali da apparire lucidi. Bà Piccolo, Smuler, Formula, Orso Filippo e via dicendo, ciascuno aveva un nome e io li piangevo tutti sul lettino dell’allergologo. Piangevo la fine della mia infanzia.

Va bè, fa l’allergologo ai miei pettinandosi la barba, se la prende così, uno lo salviamo.

Salvammo uno degli orsi mentre tutti gli altri finirono nel garage – che in quegli annetti non era annesso alla casa ma distava due isolati.

Ne salvammo uno al quale concedemmo di essere ispido e acaroso, intriso di tutti gli odori di casa – l’aglio per esempio, di quando si metteva su la bagna cauda – e delle sostanze che circolavano - la bella schiumetta della saponetta Vidal, il colore penetrante di certi pennarelli a forma di topo. Quell’orso divenne l’unico e – ovviamente – il più amato, talmente amato che non mi faceva tossire né colare il naso. Era un saggio l’allergologo con tutta quella barba da farlo assomigliare al più grande dei pupazzi, quello per il quale mio papà aveva detto: per trasportarlo magari prendo la 128.

Più del cortisone cura l’amore, la saggezza è tutta qui perché l’acaro di per sé è insgominabile. L’aspirapolvere con spazzola flottante è una chimera fortunata, un po’ come bere l’acqua benedetta per chi è malato che se non lo guarisce gli ricorda il Paradiso.

Nel suo Acari, edito da Neo, Giampaolo Rugo, racconta di vecchiette coriacee, calciatori caciaroni, occhi che bucano cuori e schermi televisivi cestisti dalla memoria corta, ragazzacci di borgata, disabili in carrozzella sempre più disabili, obiettori di coscienza via via più depressi, ragazzotti brufolosi e sguardi tristi, e lo fa con grande amore. Nessuno di questi personaggi si perde fra le pagine ma tutti ritornano, chi da protagonista chi da comparsa, da adulto come, a ritroso, da ragazzo, secondo una scansione del tempo non lineare. Il comune denominatore, sembra ricordarci Rugo, è il nemico del nostro tempo: l’inquietudine sottile, quel malessere sottocutaneo che scaccia dall’Eden e fa affacciare sul tremendo dubbio del non senso di quando un colpo arriva e non è il momento giusto. Non è mai il momento giusto ma quello che temiamo – la morte, l’insuccesso, le fini in generale – nutriti dai brandelli di noi che ci lasciamo indietro, sbocconcellati paura dopo paura, si verifica sempre.

Eppure eppure, sotto traccia quanto il più bastardo dei Dermato-phagoides, la narrazione di quest’opera che è un romanzo frammentato o una raccolta di racconti ben incastrati, non è così amara da lasciarci soli. Siamo troppo accomunati dalla fragilità. Pure la più tragica delle storie, quella che più ci dispiace e diciamo ma no ma che peccato proprio adesso che, trova più avanti, se non una consolazione, una tentata ricomposizione, una chiusa, qualche parola lieve; il racconto più drammatico nel quale vediamo senza retorica il faccia faccia fra un disabile grave e il disilluso – ma anche pietoso, umano, empatico – obiettore di coscienza che si occupa di lui, termina in una bolla di magica sospensione iridescente dei primi raggi del sole. I volti tornano di racconto in racconto, come le macchine fotografiche usa e getta e le agende omaggio della banca, l’incastro funzione e l’universo di Acari regge, regalando al lettore melanconia, sorrisi e qualche piccolo struggimento.

Il mio racconto preferito: Roba.

E anche Bob McAdoo, che ve lo dico a fare.

Ma quello più ingombrante, come il pupazzo trasportato nella 128: Tre Tenori perché è la storia dei diciannovemilanovecentonovantanove di noi che non ce la fanno e quindi dobbiamo continuare a leggere.

E poi vediamo come va a finire.

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