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Recensione | Beati gli inquieti, Stefano Redaelli

Mia sorella lavora nella Casa delle farfalle, una specie, un centro diurno per disabili psichici dove gli ospiti arrivano chi sul pulmino della cooperativa, chi con l’autobus di linea o con la propria auto. Durante il giorno si intrattengono costruendo cose semplici da vendere nei mercatini e occupandosi di un orto di pomodori per produrre una conserva che mia mamma acquista in generose quantità. Alcuni, data una certa dimestichezza con gli psicofarmaci, sono ormai senza denti mentre altri no e simulano, con l’aiuto degli operatori, le risposte da dare a un colloquio di lavoro. Spesso il lavoro lo ottengono. A molti di loro non è necessario ricordare di farsi la barba e le ragazze spesso si mettono lo smalto e la trousse in borsetta. Quando mia sorella si è sposata, dopo una cerimonia con fin troppa commozione e qualche risata che non c’entrava niente, al momento del riso e dei petali di rosa, avevamo i vestiti impolverati di amido e i chicchi dentro i capelli e nell’aria aleggiava una certa ambiguità perché, tutti felici e tutti agghindati, non si capiva più chi fosse il parente e chi fosse il matto. Ma era giorno di festa. L’inquietudine allentava la morsa. La festa e la gioia riempivano il solco, forti della certezza che i ruoli sarebbero ridistribuiti correttamente, all’indomani. Domani tutti avremmo capito tutto.

Ma cosa si può capire della pazzia? Ha senso fare l’osservatore esterno o per penetrarla, sviscerarla, centrarla nella sua essenza bisogna invece fare il tuffo nelle acque nere del proprio sé?

Smettere l’abito di gala e indossare le scarpe dell’orto.

Beati gli inquieti, di Stefano Redaelli, Neo edizioni, prospetta un’esplorazione in questo senso che lambisce il dentro e il fuori, gli altri e il noi. Tutti lo pensiamo: noi siamo sani, i malati sono gli altri, sia che lo siamo, sani, (ma lo siamo?) sia che no (ed è sempre qualcun altro a farcelo notare). Questo è il paradosso dell’analisi: che la malattia mentale, ove ci sia, chi ce l’ha non la conosce in quanto strutturale alla propria realtà, unico filtro, sola mensura. Da qui, nella storia e nei secoli, la ghettizzazione di chi si discosta dal socialmente in uso e la promozione a sano di chi ci si adegua come se si potesse tirare su un cordone sanitario a protezione dalla follia. La salute, dunque, sarebbe la pazzia della maggioranza. Ma se a passeggiare in un centro di riabilitazione psichiatrica fossimo noi, sapremmo dire chiaramente cosa ci distingue da chi ci è ospitato? Chi è il parente della sposa e chi il matto?

Redaelli ci racconta le storie di un gruppo di ospiti in un centro di riabilitazione che ha fatto della Casa delle farfalle il suo posto nel mondo e, partendo da una descrizione poetica della malattia mentale - a tratti, dove la lucidità e la visione profetica di alcuni dei pazienti sono dichiarate, anche un po’ ingenua - riscatta il finale con un gioco di specchi. Lo straniamento è lo stesso di quando ho letto le ultime pagine, anni fa, di Un’anima persa, di Giovanni Arpino e mi torna in mente Cartesio che prima di approdare al cogito ego sum, passa per la tappa intermedia.

Dubito ergo sum.

Ecco l’eredità della nostra cultura, tara e medicina: il dubbio. Il romanzo di Redaelli è l’elogio del tarlo, della spina nella pianta del piede, nella scossa sismica che fa scricchiolare la struttura della nostra realtà. Quando la fessurazione comincia, tutto può penetrare, anche una visione mistica che trascenda il sé.

Si sente spesso, infatti, che i matti parlino con Dio.

Beati, allora, coloro che sono inquieti.

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